VUOTO ARTISTICO

Da tempo denunciamo, inascoltati, il vuoto culturale, letterario, spettacolare, in una parola artistico di questo Paese.

Non che l’arte debba servire. Ma almeno che sia un rifugio, un diversivo, un paradiso artificiale, la costruzione di un proprio sistema di miti, una distrazione dall’esistenza o dalla morte, una vita parallela. Non che l’arte debba servire, per carità; però il vuoto culturale, sociale ed emotivo che la sua assenza ci lascia sarebbe in grado di sgretolare una civiltà così come la conosciamo e, presto o tardi, lo farà.

Come ce ne siamo accorti? Dividiamo il processo in due fasi.

Il primo passo è stato lo sdoganamento, l’inflazione, lo straripamento: tutto è arte / tutti siamo artisti (quindi nessuno) perpetrato dai talent show. Milioni di concorrenti, a questo punto, se contiamo i provini fatti, le audizioni andate male, il numero di edizioni di uno stesso programma a cui si è giunti, moltiplicate per le edizioni di altri programmi diversi di titolo, simili di meccanismo, uguali nella sostanza. Tutti hanno un talento, uno per famiglia, tutti hanno un hobby (parola orrenda), tutti sanno canticchiare, fare un’imitazione, scrivere quattro battute divertenti, allenarsi una vita per stare in equilibrio o fare una magia. Ottimi intrattenitori, ottime possibilità di essere assunti sulle navi da crociera, sì, e poi? Il tutto condito da un’ultra-linguaggio che avrebbe fatto impallidire futuristi-interventisti-propagandisti-Mussolini-regimi totalitari-Goebbels: “Mi hai commosso – Sei un artista vero – Straordinario – Standing Ovation – Da brividi – Ti stavamo aspettando – et cetera.

Poi, quei poveretti – salvo chi già è un professionista che ha ascoltato il suo agente per avere un po’ di visibilità e ha finalmente potuto vantarsi con i parenti “Guarda, nonna, sono in televisione!” – l’indomani tornano in ufficio, ricordando per anni i bei tempi in cui avevano fatto migliaia di visualizzazioni.

Il secondo passo, ancora più evidente e triste, ancora più significativo per rimarcare il vuoto artistico e l’assenza, mi spingo a dire, di un jet-set capace almeno di fingere vizi e virtù come gli Dei dell’antica Grecia, è la sostituzione degli artisti con qualsivoglia altra professionalità. Il posto che spetterebbe agli artisti è toccato, in un primo tempo, ai tecnici (ristoratori, stilisti, architetti, albergatori, chef, pasticceri, et cetera) e poi, perenne campagna elettorale, ai giornalisti e ai politici. Quante volte (salvo trattarli come straordinarie macchiette) abbiamo visto ospiti degli scrittori, dei pittori, due musicisti? Quante volte gli si è dato il tempo di parlare, respirare, concludere un ragionamento, essere provocatori, fornire una lettura più profonda? E quante volte loro, oltre a far vedere il loro libro marchettandolo sui titoli di coda, hanno detto qualcosa di diverso, di inaspettato, di ficcante?

I nuovi e svuotati gesti artistici, proprio perché insignificanti – sparizioni dal palco dell’Ariston, esibizioni androgine targate Gucci, ukulele in cameretta, si trasformano preso in gif e meme e volano via col vento e nel vento: come le parole di questo articoletto.

Ora, a riempire questo vuoto dell’arte e nell’arte, nuovi nani e donne barbute, ci sono i virologi. Chissà a chi toccherà la prossima volta, il prossimo turno.