SENILITÀ OVVERO I GIOVANI IN ITALIA

Senilità non è solo il titolo del miglior romanzo di Italo Svevo, al netto della grande modernità e delle intuizioni definitive su nevrosi e psicanalisi de La coscienza di Zeno, ma è anche il consueto stato d’animo, ovvero l’eterna precoce vecchiaia, dei giovani italiani.

Essi nascono e crescono avendo sulle spalle, dal primo vagito, il peccato originale, il debito pubblico, il ritardo sui programmi ministeriali scolastici. Devono fare attenzione a non deludere i nonni, non ferire i genitori, non uscire dagli schemi. Se escono di casa tardi sono mammoni; se escono di casa presto, sono scapestrati. Devono essere prudentissimi, scegliere il meno peggio, non lanciarsi mai andare, non osare mai: sennò, dopo cosa fai? Cullati da una retorica da talentshow, fondata su sogni stucchevoli ed effimeri e bastonati dalla dura realtà nostrana che li vede poveri, inadeguati, provinciali, ignorati, sono ancora e soltanto indirizzati alla sterile conquista del posto fisso tramite concorsone, del mutuo per la casa di proprietà, della macchina a rate, della rispettabilità sociale raggiungibile esclusivamente in due modi: lo stipendio alto o la procreazione di figli. I giovani in Italia si sentono finiti a 25 anni. Già a quell’età sembra sia andato tutto storto, sembra sia il momento di prendere una decisione definitiva, senza ritorno, senza possibilità di reinventarsi. Chi poi lo farà (cose in realtà normalissime quali andare all’estero, cambiare lavoro, lasciare la ragazzina delle medie), verrà visto come una specie di eroe, profeta, divinità, coglionazzo.

Non è un caso che poi, a 40 o 50 anni, quando hanno finalmente due soldini, gli uomini italiani si riscoprano giovani: perché giovani, dentro, non lo sono mai stati. Con buona pace delle critiche e degli insulti peterpaneschi. E non è un caso che, durante il periodo di restrizioni by COVID-19, siano stati i giovani, ovvero i vecchi, i più ligi alle regole. Non hanno mai sgarrato, in barba a chi pensa che io alla loro età sarei scappato di notte pur di andare a scopare, sarei scappato di notte pur di stare con gli amici, suonare, parlare, baccagliare, fare casino. Gli unici ribelli, irriducibili attratti dall’inorganico e sprezzanti la morte, sono stati i vecchi, ovvero i giovani. L’anarchia è spettata a loro, gli unici, in Italia, a non avere niente da perdere. Il ribaltamento completo della normalità.

Ai giovani è andato un plauso, per carità, non possiamo sempre massacrarli anche quando sono belli e buoni ed educatissimi e ci fanno addirittura sperare nel futuro. Ma non possiamo ignorare questa spia che lampeggia: giovani vecchi e vecchi giovani: non può essere un bene.

Insieme alla loro fidanzatina di sempre, anziché praticare poli-amore e scopa-amicizie e notti-brave, i giovani in Italia vivono una loro indotta vecchiaia interiore alimentata da incertezze, titubanze, prudenze e sensi di colpa.

Mentre là fuori, i vecchi come me, parlano a nome loro, sbagliando.