LAMERICA

I recenti fatti di cronaca, legati alla piaga del razzismo, portano la nostra attenzione, ancora una volta, oltre-oceano. Come accade negli ultimi anni, i fatti non contano, conta il racconto dei fatti (i migliori di me direbbero lo storytelling), l’atmosfera che li supporta. Ci si divide in tifoserie, si ride per meme gif battute, ci si indigna per cose di poco conto, non ci si accorge di cose gravissime, si parla per bocca d’altri, si esagera da una parte e dall’altra e all’appello mancano sempre loro, i grandi assenti del nostro tempo: cultura e approfondimento.

Il tema è, come spesso, inesauribile, ma prima di esprimersi, sarebbe meglio tentare di conoscere l’America, almeno un pochino, almeno un punto di partenza: il DNA, i simboli, gli archetipi, l’antropologia, la mentalità, le origini, la sociologia, la lingua, il background culturale. Ci si potrebbe interrogare partendo da una prima visione: un popolo che, giocoforza, non è mai tornato all’invocato Oriente, ma ha spostato la sua frontiera e si è incamminato a Ovest, nel Far West, verso Occidente: il luogo fisico e figurato del tramonto.

Ma, con meno fronzoli, si potrebbe prestare attenzione (anziché alle sit-com della nostra infanzia, ai telefilm della nostra adolescenza, ai film dello scorso secolo) alla lettura di tre pilastri che, a mio avviso, sono: Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman e l’Herman Melville di Benito Cereno e Billy Budd.

Poi, ciliegina su questa prima infarinatura, Henry Miller e questa fotografia contenuta nel suo capolavoro Il Tropico del Cancro:

L’America è meglio tenerla così, sempre sullo sfondo, una specie di cartolina postale a cui guardare nei momenti di debolezza. Così, tu t’immagini che sia sempre là ad attenderti, immutata, intatta, un grande spazio aperto patriottico con vacche, pecore e uomini dal cuore buono, pronti a fottersi tutto quello che vedono, uomo donna o bestia. Non esiste l’America. E’ un nome che si dà a un’idea astratta