IL COLIBRÌ

Era il 1995 quando Sandro Veronesi ci offriva in regalo C. B. versus Cinema, un’indimenticata intervista a Carmelo Bene sulla settima non-arte. Il genio salentino esordiva così: «Questa sala buia dove la gente, o semi-buia, va da tempo a sedersi e non si capisce perché s’accenda un quadrato. Lasciassero al buio anche quello… sarebbe una specie… ma noi occidentali non siamo abituati alla… c’è poco Oriente. L’India facile non basta, appunto, a spegnere tutto».

In queste poche parole c’è già tutto il romanzo che Veronesi scriverà quasi 25 anni più tardi, Il Colibrì, libro che dà dignità e speranza alla Letteratura Contemporanea. Il Buio è quello della spirale di eventi dolorosissimi che investono il protagonista della storia; l’Oriente è quello rappresentato dall’unico raggio di luce, una visione, ma mai stucchevole, una speranza: la nipote Miraijin. Ho voluto tracciare questo cerchio, forse pretestuosamente, per seguire il meccanismo del romanzo: segni segnali premonizioni eventi profetici simboli ricorsi che, in un inseguirsi tra destino e psicanalisi, sconvolgono la vita di Marco Carrera, dall’infanzia sino ai suoi ultimi giorni. Tutto questo dipanarsi è reso possibile da una magistrale gestione del tempo: della vita, della storia, dei sentimenti.

Quando, raccontando l’episodio del protagonista che da ragazzino riesce a salvare, una prima volta almeno, la sorella dal suicidio, Veronesi fa il calco de Il Gorgo di Beppe Fenoglio, il miglior racconto di sempre della Letteratura Italiana, e riproviamo il medesimo brivido, siamo dunque sicuri di trovarci di fronte a un capolavoro. Letteratura che fa, vivaddio, letteratura: non si maschera da intrattenimento, non consola, non dà via di scampo, ci mette di fronte all’ineluttabilità di eventi tragici che, astraendo, costellano l’esistenza di ogni essere umano.

Leggendo questo libro si sente il profumo de La cognizione del dolore di Gadda e di Un dramma borghese di Morselli, e si impara tanto e, espressione che ormai quasi ci si vergogna a dire, ci si fa una cultura: i periodi,  che non temono di essere complessi, si muovono facilmente dal sublime al grottesco, in un lirismo tutto loro e cartina tornasole della penna dell’autore, e ci costringono a cercare alcuni termini sul dizionario, luoghi sulle mappe, parole di altre lingue, complicati calcoli matematici, canzoni maledette, fumettisti, arrivando sino a instillare in noi la curiosità per alcuni vecchi titoli della collana Urania.

Mi sembra sempre superfluo parlare di trama e personaggi, mi pare un compitino che non aggiunge nulla: si deve leggere il libro. Questo moderno romanzo epistolare (la spina dorsale è rappresentata dalle mail che raccontano la storia d’amore mai vissuto e quindi vissutissimo tra Marco e Luisa) ci parla con pacatezza, con dolore lancinante ma sommesso, con lungimiranza: il finale commovente raccoglie ognuna di queste cose. Muoversi velocissimi per restare fermi, in equilibrio, come i colibrì, come i dervisci rotanti, come gli insegnamenti tradizionali più preziosi: rimanere centrati nonostante gli agenti esterni, le circostanze, le contingenze, gli sconvolgimenti della condizione umana causati dalla famiglia di provenienza, dalle scelte sconsiderate, dagli amori sbagliati, dalle rinunce deleterie. Muoversi per stare fermi, apparente contraddizione, per arrivare alla calma, alla consapevolezza, alla presa definitiva di coscienza, alla dignità.

Non è un caso, e chiudo ricominciando da uno dei prediletti del Carmelo Bene citato all’inizio, che nel romanzo venga citato San Giovanni della Croce; perché qui siamo davvero di fronte al percorso di purificazione ed elevazione da lui indicato, il cammino che Marco Carrera compie tra luce tenebrosa e tenebra luminosa, con un’eroica resistenza che lo accompagnerà alla meritata poeticissima fine: «Dio umilia grandemente l’anima per poi innalzarla di molto».