“Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente”, scriveva Cesare Pavese ne Il mestiere di vivere. Tante volte, troppe, questa frase è tornata alla mia mente negli ultimi giorni, interpretando, se non la certezza, almeno il tragico dubbio che comincia a serpeggiare nelle coscienze degli italiani che assistono attoniti e disorientati ai vari bollettini quotidiani: contagi, decessi, guarigioni, curve, previsioni, cauto ottimismo, malcelato pessimismo, numeri fasulli e parametri inconciliabili per trarne adeguate analisi dei fatti.
Quel che è certo è che i dati non sono incoraggianti, o meglio, non quanto ci si sarebbe augurati. Incredibilmente ligi oltre la loro fama e le aspettative, salvo casi isolati che diventano immediatamente derubricabili come idiozie, gli italiani hanno visto più volte l’asticella della loro sopportazione sollevarsi ulteriormente. Il dolore e il rispetto per i morti non consentono di alzare la voce per esigenze che paiono secondarie, se confrontate con le storie di angoscia, sofferenza, impegno, sacrificio, ma che sono fondamentali per condurre una vita sana: lo svago, la comunità, lo sport, il sesso, il teatro, i concerti, le perversioni, il viaggio, la prospettiva, la possibilità di immaginare un futuro.
Uno spiraglio di luce, by-passando i media, arriva dagli amici medici e infermieri che conosciamo di persona e che, quando hanno due minuti da dedicarci, ci dicono al telefono che perlomeno non ci sono più malati in corridoio e che il reparto di terapia intensiva è tornato a respirare, proprio come i pazienti dimessi, sopravvissuti al virus. Ma sembra appunto che la sofferenza che stiamo subendo, chiusi in casa, soggetti a restrizioni più rigide che in moltissimi altri Paesi, sia stata quasi del tutto inutile: un patimento eccessivo, un inutile infierire, se le conseguenze morali ed economiche saranno peggiori della cura; se chi di dovere, ovvero la politica, coadiuvata dalla scienza, avendo avuto due mesi di tempo, non proietta davanti a noi delle risposte, non definitive ma almeno coerenti; e se davanti a noi non vediamo comparire una debole luce.
L’assenza di un piano, almeno abbozzato, che ci restituisca una vita dignitosa, aggredisce la nostra obbedienza alle regole imposte, la nostra granitica, fino a qui, forza di volontà. Si vocifera una data plausibile; si assiste alle cautele dei virologi che affollano i talk-show e che frenano, scoraggiano, mettono le mani avanti dopo le troppe contraddizioni di cui si sono resi protagonisti; si caldeggia una riapertura; si vola goffamente tra le più bizzarre idee per tentare di salvare il salvabile della stagione estiva.
E intanto, in Italia, la primavera è irrimediabilmente perduta.
Questo non è un capriccio, tantomeno il mio capriccio, perché la pandemia mi ha sorpreso a quell’età in cui poter rifiatare, ritrovare se stessi, cimentarsi con gli arretrati, riprendere a scrivere con metodo, guardare una serie tv, oziare sul divano, non avere più orari, poter non doversi affannare tra aperitivi e cene è quasi una benedizione. Ma in quanto scrittori, artisti, intellettuali, giornalisti, noi dobbiamo sempre pensare a chi soffre: sempre. E dobbiamo farlo senza eufemismi, senza retorica, senza edulcorare l’intreccio delle infinite storie vissute durante il lockdown. Che cosa vorrà dire, a lungo termine, moralmente e psicologicamente, aver perduto una primavera della nostra vita?
Che cosa significa, per i bambini, pieni di energia, rallegrati dal sole, dal poter giocare fuori, dalle giornate che si allungano, dagli amichetti, dalle partitelle nel cortile della scuola? Che cosa significa, per un anziano, perdere una delle ultime primavere della propria irripetibile vita? Che cosa significa, per i ragazzi di quindici anni, per i loro ormoni, per i primi baci, per la necessaria solitudine di una telefonata, di una trasgressione, di una pulsione? Che cosa significa per i diciottenni, per i loro primi giri in macchina, per l’esame di maturità, per la prima vacanza da soli, lontani, innamorati? Che cosa significa per gli atleti, pur dilettanti, aver visto sfumare il finale della stagione? Che cosa significa per i caffè nei dehors, le passeggiate, le serate all’aperto? Che cosa significa per uno studente, non potersi trovarsi in gruppo a ripassare, fumare una sigaretta davanti ai cancelli dell’università, fantasticare sull’Erasmus, tirar tardi il giovedì notte?
L’elenco sarebbe infinito e, per delicatezza, non contempla il dolore più grande: chi in questa perduta primavera avrebbe voluto salutare per l’ultima volta un proprio caro, una nonna, una mamma o un papà, ricordandosi un pomeriggio d’aprile, i fiori, le lacrime, le tante belle parole dei sopraggiunti per celebrare la bellezza di una vita ben vissuta.